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Ritorno all’analogico

In quasi 13 anni di foto digitali, il supporto cartaceo non si riesce proprio a lasciarlo nel secolo scorso. Decine di migliaia di scatti, magari non tutti meritevoli di passare alla storia ma magari qualche decina di migliaia di stampe meriterebbe di salvarsi dall’oblio digitale garantito dalla fallibilità accertata dei supporti su cui le abbiamo salvate. Non siamo come i nostalgici dell’odore della carta dei libri: un libro cancellato, alla peggio si ricompra. Una foto persa è una foto persa, non te la ridà più nessuno e allora meglio averne una copia anche su carta, credetemi.

A parte i service di stampa online e non, ottimi per volumi di stampe medio-grandi e per la stampa di oggettistica personalizzata con le nostre foto, quando vorremmo stampare una particolare versione di uno scatto magari servirebbe averle subito e soluzioni in giro ce ne stanno: stampanti a sublimazione, inkjet, tecnologia Zink… E poi sono tornate loro: le istantanee Polaroid, anzi di The Impossible Project. Prima di spiegarvi perché ho scelto questa strada vi spiego un attimo chi sono questi.

La storia di Impossible la potete leggere nello specifico qui, in breve: gli impiegati dello stabilimento olandese in cui si producevano alcuni tipi di pellicole Polaroid è stato rilevato dagli stessi impiegati che si sono assunti l’onore di fare reverse engeenering di tutto quanto, hanno riformulato i reagenti per lo sviluppo a causa delle norme anti inquinamento della UE e, una volta ottenuto un risultato commercialmente valido, hanno riportato in pista le vecchie macchinette Polaroid ricondizionando tutto l’usato che riuscivano ad avere dagli appassionati delle macchinette istantanee. Al momento stanno lanciando la loro prima macchina fotografica la Impossible Type I-1, ma erano già presenti sul mercato, oltre che con le pellicole e il servizio di ricondizionamento dell’usato, anche con l’Impossible Instant Lab I-Type, soluzione che introduce una nuova cartuccia priva di batteria (le Polaroid erano alimentate da una batteria inserita nella cartuccia che si cambiava ogni 10 scatti), quindi a minor impatto ambientale, ma che supporta anche le vecchie serie 600 e SX-70. Devo ammettere che quando un annetto fa lessi di loro pensai: “Ma chi glie lo ha fatto fare!”. È il sistema che costa più di tutti con una singola stampa che supera i 2€ di costo,, ma ammettiamolo: ha un fascino tutto suo, la piena riuscita dello sviluppo non è certo e dipende da tutta una serie di fattori che va a influenzarne la chimica: freschezza delle pellicole, loro corretta conservazione, temperatura a cui si è scattato e temperatura in cui si fa sviluppare la foto, luce presa durante lo sviluppo. Capirete anche voli che ogni singola lastrina fa storia a sè ogni singola lastrina è un pezzo unico; ogni singola lastrina è un posto d’onore per quegli scatti che se lo meritano.

Ma il fattore che mi ha fatto decidere è anche il ritorno alle mie origini: la mia prima macchia fotografica era una serie 600, mi fu tolta, da chi me la regalò, quando il prezzo delle cartucce diventò proibitivo (e io non me la facevo durare nemmeno dieci minuti). Ma il senso di aspettativa che ti faceva contare i minuti e fissare la lastrina che da grigia diventava giallina e poi cominciavano ad apparire i soggetti fotografati ha lasciato un’impronta che a quanto pare non si è cancellata. Mi è bastato vedere alcuni scatti fatti con quelle pellicole per innamorarmene e individuare tra i miei gli scatti meritevoli di un simile trattamento, peccato solo che adesso si debba sviluppare al buio ;-).

Ve lo dico subito: non chiedetemi Polaroid gratis! Qualcuno potrebbe riceverne, ma sono eccezioni che decido io, se ne vorrete dovrete contribuire al loro acquisto con un paio di Euro. L’era del tutto gratis finisce con Impossible Instant Lab.

Molti mi conoscono come un fanatico del digitale e in parte lo sono, ritenendo la musica digitale, gli ebook e le foto digitali un grosso passo avanti che permette a chiunque di usufruire di questi media a prezzi mai così bassi (sono anche un fanatico del “se ti piace, allora pagalo e non rubarlo”). Qualcuno non si spiega perché mi sia buttato su una tecnologia di trent’anni fa e non su una stampante a sublimazione o similare tecnologia di stampa digitale.

In parte l’ho già spiegato: ritengo la fotografia un processo che deve essere digitale solo nel momento in cui la luce viene letta dal sensore e nella postproduzione, per il resto si dovrebbe mantenere un processo analogico: filtri colorati davanti alle lenti e processi di stampa ottica con carta sensibile deve essere sempre preferibile ai filtri prefabbricati, per quanto potrebbero coesistere e integrarsi. La stampa a sublimazione o inkjet o a trasferimento termico su carta chimica ha un senso ma appiattisce il discorso di molto, utile ma deve essere alternativo e non il contrario. Perché? Banalmente, il motivo è da ricercarsi nella unicità che lo scatto fotografico deve avere. Ogni modifica fatta in post produzione si finalizza con la stampa e una stampante “digitale” (concedetemi il termine anche se è un’approssimazione del processo) rende tutto uguale, mentre il processo di stampa chimico è influenzato da molti fattori che ne andranno a definire il risultato finale.

Ripeto, non sto dicendo che bisogna usare i procedimenti analogici E NON quelli digitali, ma che si dovrebbero preferire, senza demonizzare il digitale che ha dalla sua la praticità della trasportabilità e della rapidità e facilità di esecuzione.

Non ho mai amato l’abuso dei filtri che si fanno con app come Instagram o Rebrica, eppure il loro scopo è (era) portare in digitale i colori delle Polaroid, ma l’uso sconsiderato e acritico di solarizzazioni e acidificazioni dei toni scuri ha portato solo al proliferare di brutte foto o, peggio, di foto rovinate dal filtro sbagliato. I colori acidi, molto o poco saturi erano una sorta di firma di una certa particolare pellicola e prima ci si ingegnava per trovare la luce che esaltasse quella qualità o banalmente si usava un altro tipo di pellicola, ma se ci si svena e si dà fondo al portafogli per comprarsi l’ultimo smartphone o l’ultima reflex che è stata studiata per avere i colori fedeli alla realtà trovo stupido andate a rovinare una foto solarizzandola oltre misura.

Trent’anni fa quelle erano foto rovinate dal sole, sbiadite nelle cornici in anni di esposizione sui mobili del salotto o appese alle pareti in pieno sole. Adesso c’è chi le ostenta per avere like ruffiani sui social. Sono vecchio? Può essere. Resta il fatto che certe foto fanno davvero schifo, e magari, prima di mettere quel dannato filtro, erano da 10 e lode.

Se il Lab dovesse funzionare credo che prenderà una piccola percentuale delle foto che scatto dallo smartphone e forse qualcuna fatta con la reflex, così come uso Instagram spero di cominciare a pensare gli scatti per la pellicola, e magari finalmente mi deciderò a prendere una stampante a sublimazione, anche se il formato 10×15 mi sta un po’ stretto, è sempre doppio rispetto a quello Polaroid. Devo fare solo spazio in casa per le scatole di foto che arriveranno.
Un ultimo paragrafo voglio dedicarlo alla Polaroid di oggi, quella che ha cercato di reinventare una sorta di istantanea con una stampante priva di inchiostri che usa una carta chimica in tricromia denominata ZINK. Tutto molto bello, pare che le foto siano anche durevoli MA hanno un formato ridicolo: 3 pollici per 2, praticamente tre pollici quadrati meno di una Polaroid 600 e magari ci mettono anche il bordino bianco. Aumentate le dimensioni e magari ci rivediamo.

Unboxing e primi test.

Il pacco arriva nei tempi previsti, imballo ottimo e abbondante, qualche perplessità in alcune scelte dei contenuti del Lab: un sacchetto in tessuto sottile come custodia non mi sembra l’ideale, ma il Lab è oggetto da scrivania e da trasporto in valigia quindi potrebbe anche starci. Altra cosa curiosa: ha la filettatura per il treppiedi.

Decido per provare prima le pellicole bianco e nero, e tutto l’entusiasmo crolla al tappeto a causa di stampe poco dettagliate con gamma e contrasto ai minimi, molti neri, tanti bianchi ma le sfumature di grigio intermedie latitano di brutto. Per me equivale a una bocciatura, il risultato dello sviluppo è più che incerto, dieci minuti di sviluppo al buio e i toni di grigio fanno pena i neri imperano e i bianchi… occupano la restante parte del fotogramma, ogni tanto a furia di tentativi ed errori riesco ad ottenere un risultato accettabile, ma il costo diventa troppo elevato per giustificare l’acquisto futuro di questo tipo di pellicola.

Poi metto quella a colori: tempi di sviluppo oltre la mezz’ora ma i colori, dopo un paio di passi falsi escono fuori tutti, magari tonalità sature e acide, ma nulla che non sia come era un tempo. Queste sono decisamente promosse, al punto che chi ha dovuto scegliere tra due versioni della stessa foto ha avuto difficoltà in quanto anche quella con poco contrasto e gamma aveva un suo perchè. Bello, di pellicole a colori ne prenderò ancora: acquisto promosso, nonostante gli inciampi iniziali.

Ipotesi sullo scostamento del gamma e del contrasto: il lab fa una foto a uno schermo senza che i due apparecchi si parlino, il telefono fa tutto, l’otturatore del lab è una lastra metallica come fosse un banco ottico. È il telefono che fa apparire la foto per i millisecondi necessari all’esposizione ed è per questo che le cose non corrispondono, forse andrebbe calibrata meglio la app, credo che scriverò a The Impossible Project. Inoltre allineare l’iPhone 6 non è esattamente immediato, si ottengono risultati migliori con l’iPad, che però è più pesante e la torre che sorregge il tutto rischia il “collasso strutturale”.

Prodotto non scevro da difetti, ma i pregi ripagano ampiamente, se amate questo tipo di fotografie.

Aggiornamento 01/06/2016

Quanto scritto sopra vale per i primi tre giorni di uso. Da ieri mi sono ritrovato con scatti molto più equilibrati, comincio a capire quali colori sono meno impressionati dalle pellicole B/N e confermo che preferisco quelle a colori, ma una volta domato, anche il bianco e nero Impossible ha il suo fascino, anche perchè dopo due giorni alcune pellicole ancora non sono perfettamente stabilizzate è aggiungono un ammorbidimento dei toni che mi ha spinto a riconsiderare la bontà di scatti scartati in prima istanza (pur riconoscendone i limiti).

Il motivo di questo aggiornamento però è un altro. Mentre aspettavo la consegna del pacco dalla Germania mi sono posto il problema di come evitare di disperdere gli scatti e di conservarli in modo corretto. Ero sul sito della MOleskine perchè mi serviva un taccuino in cui annotare alcuni parametri di scatti da ripetere a distanza di mesi o anni e mi cade l’occhio sul loro album a pagine nere (e le foto le preferisco guardare proprio su sfondo nero), con tasca  a soffietto incollata internamente alla copertina: ottima per tenerci delle pellicole in sviluppo. Ordinato il tutto, è arrivato oggi e, armato di nastro biadesivo ho incollato i primi otto di ventiquattro scatti effettuati. Possono sembrare pochi ma se consideriamo le copie doppie o triple fatto per testare la pellicola a varie esposizioni e le volte che non ho esposto la pellicola in tempo (due volte in cui mi è scappata la lastra dell’oturatore maniale). Due foto perfoglio per trentadue fogli di cartoncino nero 200 gr/m² di grammatura, spero regga lo spessore delle pellicole visto che sembra pieno dopo aver occupato i primi 4 fogli. Bonus: due fogli di cartone ondulato che facevano spessore nella confezione dell’album sono stati saldati insieme col biadesimo a formare un’altra cartelletta per schermare le pellicole dalla lice durante lo sviluppo. Album decisamente promosso